Il museo come luogo principalmente di ricerca

Il 20 ottobre 2017 si è tenuto a Palazzo Te, nell’ambito della rassegna “Un’opera al mese”, un incontro con il prof. Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino. Quanto segue non è la trascrizione della conferenza, ma la rielaborazione di alcuni appunti che vi ho preso in diretta; il che significa che, pur senza intenzione, potrei avere selezionato automaticamente cosa annotare e potrebbe trasparire qua e là pure il mio pensiero sul ruolo dei musei. Spero tuttavia che questo non sia accaduto; se invece fosse, me ne scuso anticipatamente con il professor Greco e con il lettore. Ad ogni modo, dove sono mie interpolazioni intenzionali, ho scritto in carattere corsivo come qui.

L’intervento prende per forza le mosse dall’esperienza di Christian Greco come direttore del Museo Egizio di Torino; tuttavia le linee guida che si possono estrapolare dal contesto specifico rimangono valide per la gestione museale in genere.


L’Egizio ha decine di migliaia di pezzi e non si può di fatto più espandere quantitativamente; pertanto deve essere un museo di ricerca, in linea con l’art. 9 della Costituzione (“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.”).
Un modo di dare forma alla ricerca è tornare a scavare sui siti archeologici per dare “collocazione archeologica”, e quindi inquadrare, i pezzi del museo stesso. E, durante gli scavi, è fondamentale pure documentare l’operato di precedenti scavi sia archeologici sia di predazione. Lo scopo è raccogliere più informazioni possibili per spiegare i pezzi del museo. Ma il museo non è nemmeno la sommatoria dei pezzi materiali esposti o conservati. Il museo non è la collezione (che è solo il punto di partenza), ma il continuo lavoro di ricerca delle persone che vi operano e vi studiano. E in questi studi è fondamentale la collaborazione tra musei che hanno collezioni simili o complementari (magari parti di una stessa collezione originaria). Ed è pertanto ineludibile la messa in rete degli archivi.
Fondamentale è pure la continua catalogazione (sempre più precisa) dei reperti conservati dal museo. A cui devono seguire in parallelo studio e restauro. Va dunque da sé che la ricerca è necessaria anche per la conservazione.
Quanto alle analisi strumentali dei pezzi, va sempre scelto di usare quelle non invasive e, qualora al momento non ne esistano ancora, è preferibile di gran lunga non procedere e aspettare l’avvento di tecniche non invasive in futuro.
È d’importanza basilare pubblicizzare che il museo fa ricerca. Ed è estremamente importante aprire il museo agli studiosi, rendendo “open source” i suoi archivi.
Il museo deve anche fare formazione, deve poter essere integrato nei percorsi universitari, in modo che gli studiosi studino permanentemente all’interno dei beni culturali. Non dimenticando mai gli archivi, perché i musei sono anche i loro archivi documentari, che vanno studiati di continuo proprio per conoscere sempre meglio la storia del museo (la quale è utile anche per orientare i nuovi studi, oltre che per il suo valore intrinseco).
Per non dire che comunque i dati dei musei (sempre ex art. 9 della Costituzione) devono essere accessibili (“open source”) per tutti, perché appartengono allo stato e non al museo.
Un altro obiettivo imprescindibile della messa in rete e connessione dei dati è portare alle cosiddette “immersive humanities”, vale a dire a creare dei modelli e delle ricostruzioni scientifiche che facciano rivivere ai visitatori del museo, e non solo, il mondo antico (i suoi vari aspetti). Ma anche rivivere le scoperte archeologiche. La realtà virtuale è la via principale per riavere esperienza immersiva del passato; un’altra sono le ricostruzioni, le copie materiali, naturalmente sempre da dichiararsi come tali e sempre da realizzarsi su basi scientifiche.

Proprio e solo il continuo e rigoroso lavoro di ricerca rende utili queste “immersive humanities” e, più in generale, davvero fruibile e aperto il museo.

Francamente lì per lì non ci ho fatto caso, ma confido che anche i direttori dei musei nostrani, o almeno qualche loro assistente di fiducia, fossero presenti nell’uditorio a raccogliere spunti.


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