Raccontar fiabe a Mantova

Oggi da noi nessuno racconta più fiabe, nemmeno gli anziani, ormai disabituati da tempo a intrattenere l’attenzione dei più giovani con delle storie.

Erano invece comunemente narrate fino al secondo conflitto mondiale, quando ancora esisteva intatto quel mondo agricolo che era il loro habitat naturale, poi travolto dal boom economico del dopoguerra.

Le fòle, come vengono chiamate a Mantova, erano tra la gente di campagna il passatempo delle ore serali, che con i ritmi della natura corrispondevano alle ore di buio. Venivano raccontate nei filòs, le lunghe veglie invernali durante le quali ci si dedicava a lavori al coperto. Nel filòs si raccontava di tutto, non solo fiabe, ma anche aneddoti e notizie, il tutto però sempre con con tono epico e grandioso. Di solito chi raccontava era l’anziano, poiché aveva più esperienza e quindi anche più cose da dire. Ma erano molto diffusi anche dei veri e propri cantastorie itineranti, detti contafòle o folèr; erano persone comuni, semplicemente più spigliate a parlare. Spesso potevano diventare molto famosi, proprio perché si spostavano da una corte all’altra, ma non venivano mai trattati da star. In genere venivano ricompensati con un bicchiere di vino e un piatto di lenticchie.

Le fiabe potevano anche essere un passatempo molto virile, raccontate nelle osterie, luoghi per soli uomini, tra una minestra e una partita a carte. Nelle osterie mantovane infatti era normale mangiare oltre che bere, un po’ come negli attuali pub britannici e irlandesi.

Ma anche in altri luoghi e occasioni si raccontavano fiabe: nelle case signorili era il padre, o un vicino, che le narrava alle famiglie riunite sotto il lampadario o attorno al focolare. E potevano anche essere i fidanzati a raccontarsele in un luogo appartato, quasi per creare un’atmosfera di maggiore intimità.

Non erano dunque solo un balocco per bimbi, come vorrebbe invece l’immaginario comune, ma un fenomeno culturale e di costume estremamente diffuso in tutte le fasce della popolazione.

È presumibile che a causa delle trasformazioni sociali ed economiche imposte dall’industrializzazione, e che hanno portato allo sfaldamento della realtà della corte e della famiglia patriarcale e dei ritmi lavorativi quotidiani e stagionali, sia caduta la pratica della narrazione di fòle.

Ma in esse si possono ancora intravedere credenze e abitudini remote, come in un libro documentario. In tutte le fòle, ad esempio, ci si soffermava sull’atto dell’eroe di accendere un fuoco per farsi da mangiare, nella celeberrima ramina par al risòt, in cui si poteva anche preparare però la polenta. Un’associazione fuoco-polenta che richiama facilmente quella sole-grano, fondamentale per l’economia agricola della nostra zona. Pensiamo a quanto erano frequenti in inverno, specie verso il solstizio, falò d’auspicio per una buona stagione e di conseguenza un buon raccolto, i burièi.

Ma anche il risotto con le salamelle, pasto quasi unico degli eroi delle nostre fiabe, è il piatto per eccellenza del Mantovano e ne riassume l’economia agricola: un’economia basata sul grano certo, ma altrettanto sul riso e sul maiale, ancor oggi principale voce dell’allevamento mantovano e talmente radicato nell’immaginario collettivo che in dialetto il termine nimal designa esclusivamente lui.

È solo un piccolo esempio, ma è un evidente indizio di come le recenti trasformazioni sociali abbiano iniziato a smantellare il nostro patrimonio culturale ben prima che si avviassero le bibliche migrazioni che stanno oggi investendo l’Europa. Raccontare una fiaba dunque potrebbe anche voler dire evitare che questo patrimonio vada definitivamente perduto.

(pubblicato originariamente su Caffè Mantova l'8 novembre 2003)

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